Conferme sull’uso di terapia genica contro una forma di cecità ereditaria
Iniettate copie sane del gene danneggiato: successo su un piccolo numero di pazienti con coroideremia, una malattia rara legata a una mutazione del gene CHM
La coroideremia è una malattia rara ereditaria che colpisce prevalentemente i giovani di sesso maschile e porta alla cecità intorno ai 50 anni. È dovuta a una mutazione del gene CHM che si trova sul cromosoma X e causa una degenerazione progressiva della coroide (membrana ricca di vasi sanguigni che “nutre” la retina), dell’epitelio pigmentato della retina (strato più esterno della retina) e della retina stessa. Colpisce una persona su 50-100mila e si manifesta con un restringimento progressivo e una perdita concentrica del campo visivo. È fondamentale che la diagnosi sia fatta prima possibile perché la malattia, oltre alla progressiva cecità, causa complicazioni renali, che sono la principale causa di morte dei pazienti. Una cura oggi non c’è ma già da un paio d’anni per i malati ci sono nuove prospettive.
Iniezioni di geni sani tramite virus-vettori
Uno studio inglese, dell’Università di Oxford, ha dimostrato che la terapia genica può tenere sotto controllo la patologia, se non addirittura migliorare la condizione visiva di chi ne soffre, non curando la malattia ma rallentandone la progressione. La terapia consiste nell’iniezione, utilizzando un virus reso inoffensivo come vettore (adenovirus), di milioni di copie sane del gene danneggiato. Nel 2014 erano arrivati i primi risultati (fase 1): sei pazienti dai 35 ai 63 anni avevano mostrato un certo miglioramento dell’acuità visiva dopo un trapianto di geni. Oggi una nuova pubblicazione,sul New England Journal of Medicine, descrive l’ulteriore sperimentazione su 14 pazienti nel Regno Unito e altri 18 tra Stati Uniti, Canada e Germania negli ultimi quattro anni e mezzo. I ricercatori, guidati da Robert MacLaren, hanno scoperto (e confermato) che il trattamento ferma la progressione la malattia, ravviva alcune delle cellule morenti e migliora la visione del paziente, in alcuni casi marcatamente. Il miglioramento sarebbe di lunga durata e quindi, in futuro, la terapia potrebbe essere proposta come trattamento, cosa che, secondo MacLaren, potrebbe avvenire nel giro di tre anni. Le ambizioni degli autori sono anche più ampie: «Vorremmo sviluppare terapie per le forme più comuni di cecità e queste potrebbero essere disponibile nei prossimi dieci anni» ha dichiarato MacLaren alla Bbc. Già nel 2008 la terapia genica si era dimostrata efficace contro una forma di cecità ereditaria dovuta a un difetto della retina: l’amaurosi congenita di Leber. E lo studio era in parte italiano: dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Napoli in collaborazione con il Children’s Hospital di Philadelphia.
«Molto tempo per arrivare alla pratica clinica»
Per Paolo Vinciguerra, direttore del Centro Oculistico dell’ospedale Humanitas di Milano e docente di Humanitas University, lo studio inglese apre prospettive molto interessanti ma che al momento sono solo teoriche: per trasferirle alla pratica clinica servirà molto tempo. «Sarebbe sbagliato illudere chi non può vedere parlando di “nuova cura” o di “speranze per guarire la cecità” perché al momento nulla di tutto ciò esiste. Dallo studio si evince che l’efficacia della terapia genica è dimostrata solo in alcuni soggetti, mentre in altri è stata praticamente nulla. Inoltre in alcuni casi l’efficacia non è durata neppure per tutto il tempo dell’osservazione. Dunque c’è una grande variabilità di risultati che richiede ulteriori conferme e ulteriori approfondimenti - spiega Vinciguerra -, senza nulla togliere all’importanza di aver ottenuto buoni risultati in alcuni pazienti, cosa che, ripeto, è della massima rilevanza». «La cecità al momento non si può curare - prosegue Vinciguerra -, ma quello che dico ai miei pazienti è: non sentitevi condannati a morte perché la scienza fa grandi progressi e soprattutto non procede col passo del montanaro, in modo costante, bensì alterna degli stop a novità improvvise, come è stato il caso del bevacizumab (originariamente un farmaco antitumorale) per la cura della degenerazione maculare. Può esserci un’idea geniale, ma prima di passare alla fase pratica dei trial clinici passano se va bene 2 o 3 anni. Ricordo comunque che chi è cieco, anche se con diagnosi senza speranza, dovrebbe sottoporsi a controlli periodici, ogni 5-6 anni, anche per valutare le eventuali novità terapeutiche».
«Tecnologia molto sofisticata»
«Il solo fatto che si possa ipotizzare un trattamento che possa stabilizzare la situazione esistente o addirittura far recuperare al paziente un po’ di capacità visiva è da accogliere con entusiasmo - aggiunge Francesco Bandello, professore di Oftalmologia e direttore della Clinica Oculistica dell’Università Vita-Salute, Istituto Scientifico San Raffaele di Milano -, soprattutto perché parliamo di una malattia in cui - come anche in altre patologie simili - il peggioramento è ineluttabile e porta spesso alla cecità in età non avanzata. Non so dire se questi studi, pur importanti, si tradurranno in pratica clinica tra 20-30 anni o prima e non so se sarà davvero questa la “cura” per patologie oculari di questo tipo. La scienza può all’improvviso prendere strade impreviste, ma la tecnologia utilizzata per il lavoro inglese è molto sofisticata, richiede capacità chirurgiche non comuni e strumentazione particolare. Anche se arrivassero alla pratica clinica, questi interventi non potranno essere eseguiti in qualunque ospedale. È però vero che la malattia è rara e dunque basterebbero pochi centri attrezzati. Resta il fatto che il gruppo dell’Università di Oxford è stato il primo a trovare un’ipotesi di cura per la coroideremia. Quello che va evitato è che le persone che attualmente ne soffrono, e che magari hanno perso la vista, si illudano di poter guarire: non è così e io lo dico ai miei pazienti. A oggi non esistono cure, ci si può solo rassegnare alla propria condizione».