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Il test che dice quando la chemio si può evitare


Un nuovo studio toglie i dubbi: la maggior parte delle donne con il tipo più diffuso di tumore al seno, se in fase iniziale, potrebbe saltare la chemioterapia senza incorrere in rischi aggiuntivi.

La maggioranza delle donne che oggi si sottopongono a chemioterapia dopo l’intervento chirurgico per l’asportazione di un tumore al seno potrebbero invece farne a meno. La notizia, frutto di uno studio presentato al congresso mondiale di oncologia medica (ASCO) che si è appena svolto a Chicago, è rimbalzata con un certo scalpore sui media. Non a caso. Il cancro al seno è il più frequente nel sesso femminile, rappresenta un terzo di tutti i tumori che colpiscono le donne: una su 8 si trova ad avere a che fare con questa malattia nel corso della vita. Solo in Italia, circa 50mila ricevono questa diagnosi ogni anno.

Sciogliere i dubbi. La novità riguarda il tipo più diffuso di carcinoma, quello cosiddetto ormono-sensibile, la cui crescita è influenzata dalla presenza di ormoni in circolazione. Anche quando il tumore si presenta in forma piuttosto circoscritta, a molte donne, dopo l’operazione per l’asportazione del tumore viene di solito raccomandata una chemioterapia, per ridurre il rischio che la malattia si ripresenti.

In realtà, se ci sono prove che la chemioterapia serva a diminuire le probabilità di una recidiva nel caso in cui il tumore abbia già interessato i linfonodi, è dubbio che abbia un’utilità quando la malattia è localizzata. Per precauzione, però, anche in questi casi la chemioterapia viene spesso proposta e raccomandata.

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Il nuovo studio, denominato TaylorX e finanziato dal National Cancer Institute americano e da alcune fondazioni, si è concentrato proprio nell’analizzare la situazione delle donne in cui l’utilità della chemioterapia è ancora oggi più incerta: quelle che hanno un tumore allo stadio iniziale, ancora localizzato, e del tipo rispondente agli ormoni ma negativo per il recettore HER2, che rende i tumori di solito più aggressivi, ma che è il bersaglio di farmaci specifici (il trastuzumab ed altre molecole simili).

Ebbene, circa il 70 per cento delle donne con questo tipo di malattia, secondo i risultati del nuovo studio, potrebbe evitare di sottoporsi a chemioterapia senza diminuire le sue chance di sopravvivenza e di guarigione.

Test genetico. Il trial clinico è stato condotto sottoponendo circa 10mila donne operate a un test genetico, eseguito su un campione del tumore, per misurare l’attività di diversi geni coinvolti nella crescita delle cellule maligne e della risposta alla terapia ormonale. Dallo studio di quei geni, il test, Oncotype DX (ma ne esistono alcuni altri analaghi), ha fornito una stima del rischio di ritorno della malattia, sotto forma di un punteggio che va da zero a 100.

Una minoranza delle donne coinvolte, circa il 17 per cento, ha ottenuto un punteggio indice di un rischio alto, ed è stata sottoposta a chemioterapia. Un’altra minoranza, il 16 per cento, ha avuto una stima di rischio molto basso, e ha evitato la chemioterapia, che già da indagini precedenti era risultata non necessaria in questi casi. La maggioranza delle donne, il 67 per cento, però, ricadeva in una situazione di rischio intermedio. In questi casi, finora, era l’oncologo a valutare, d’accordo con la paziente, che cosa convenisse fare, anche se spesso la chemioterapia era la scelta.

Nessuna differenza. Nello studio, metà delle donne con questa situazione di rischio, dopo l’intervento chirurgico e prima dell’inizio della terapia ormonale, è stata sottoposte anche alla chemioterapia standard, mentre l’altra metà ha saltato la chemio ed è passata direttamente alla terapia ormonale.

A distanza di 9 anni, quando il 94 per cento delle pazienti era ancora in vita, e oltre l’80 per cento senza segni di malattia, non sono state osservate differenze significative tra i due gruppi: sia tra chi si era sottoposto a chemio sia tra chi non l’aveva fatta il numero delle recidive (comunque molto piccolo) è stato lo stesso. Il test, secondo gli esperti, è un esempio di applicazione riuscita di medicina di precisione, in cui la decisione sulle terapie viene guidata dalle caratteristiche molecolari del tumore e dal grado di rischio specifico per ogni singola donna.

Che cosa cambia. In concreto, per molte pazienti, come hanno commentato diversi oncologi, si tratta di evitare un trattamento che, seppure molto meno rispetto al passato, resta pesante, e con un impatto non da poco sulla qualità della vita. Sarà anche da vedere come la prenderanno le donne: tra molte per cui sarà un sollievo, ce ne saranno probabilmente altre, specialmente quelle che anche al test presentano dei valori borderline, disposte a sottoporvisi nel dubbio che ci possa esserci anche una sottilissima differenza.

È comunque un cambiamento rilevante nella cura. Il test Oncotype DX (ma ne esistono anche alcuni altri analoghi) è impiegato abbastanza di frequente negli Stati Uniti, molto meno in Europa. In Italia, per ora, è rimborsato dal Servizio sanitario nazionale in una minoranza di centri che conducono sperimentazioni. Se introdotto nella pratica su più larga scala, rappresenterebbe di sicuro un cambiamento di rilievo nel modo di affrontare la malattia.

Per molte donne, dopo l’operazione inizierebbe direttamente la terapia ormonale, di cui anche studi recenti hanno confermato l’efficacia nel ridurre la mortalità.

Chirurgia e terapia ormonale. La terapia ormonale nel caso del cancro al seno ha la sua ragione nel fatto che molti tumori della mammella presentano sulla superficie delle cellule dei recettori per gli estrogeni, per il progesterone, o per entrambi. Il che significa che questi ormoni contribuiscono a stimolare la crescita del tumore ma anche che, con farmaci opportuni che agiscono sui recettori, si può rallentarla o inibirla.

Le terapie ormonali somministrate in caso di tumore positivo per gli ormoni sono diverse, e variano a seconda dell’età della paziente. Nella maggior parte dei casi vengono proseguite per cinque anni, in casi specifici fino a dieci.

Una classe di farmaci ormonali utilizzata è quella degli antiestrogeni che in sostanza impediscono alle cellule tumorali di utilizzare gli estrogeni prodotti dall’organismo per crescere. Il più noto e utilizzato è il tamoxifene, che viene assunto sotto forma di compresse.

Ci sono poi farmaci chiamati inibitori dell’aromatasi che bloccano la produzione degli estrogeni impedendo l’azione dell’enzima aromatasi, indispensabile per la loro sintesi a partire dagli ormoni sessuali maschili, presenti anche nelle donne. Sono prescritti di solito alle donne già in menopausa, che hanno una produzione di estrogeni non più dalle ovaie, ma solo da altri tessuti, come l’adipe. A questa classe di farmaci appartengono sostanze come l’anastrazolo, l’ exemestano e il letrozolo.

Ci sono infine farmaci chiamati analoghi dell’LH-RH che inducono la menopausa farmacologica bloccando gli ormoni ipofisari che stimolano la sintesi degli estrogeni.

Anche le terapie ormonali hanno effetti collaterali non trascurabili, soprattutto considerando il fatto che devono essere assunte per anni. Quelli comuni a tutti i trattamenti, e che derivano dal fatto che i farmaci inibiscono l’azione degli estrogeni, sono simili ai disturbi della menopausa, dalla vampate di calore ai dolori articolari e all’osteoporosi: possono essere fastidiosi, ma di solito vengono considerati più tollerabili di quelli provocati dalla chemio.

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