Quanto pesa l’ereditarietà nello sviluppo dell’Alzheimer?
Sono stati identificati alcuni geni responsabili di un aumentato rischio, che però si ferma a circa il 3 per cento. Molto dipende ancora dagli stili di vita preesistenti.
di Marco Trabucchi, presidente Associazione Italiana Psicogeriatria
Negli anni più recenti il mondo scientifico ha prestato grande attenzione allo studio dei geni associati alla demenza di Alzheimer. Sono stati identificati alcuni fattori con un ruolo importante, ma sarà necessario molto impegno per arrivare a dati più precisi. Infatti i geni caratterizzati fino a oggi possono o meno essere responsabili di un aumentato rischio, però non sono la causa diretta e unica della malattia, anche perché alcuni portatori sono esenti dalla demenza di Alzheimer, così come vi sono malati che non presentano questi geni.
I geni coinvolti
Quindi oggi è corretto parlare di geni che aumentano la probabilità di contrarre la malattia di Alzheimer, ma non si comportano come altri geni che determinano alcune nostre caratteristiche di base come il colore degli occhi o dei capelli. È stato infatti dimostrato che i geni coinvolti nella malattia di Alzheimer sarebbero responsabili di non più del tre per cento del rischio. Il gene più comunemente associato con la malattia di Alzheimer che compare dopo il 65 anni è chiamato «apolipoproteina E»; la forma APOE E2 aumenta significativamente il rischio. Ma vi sono anche altri geni identificati per un supposto collegamento con la malattia di Alzheimer. Tra questi ABCA7 (collegato al metabolismo del colesterolo), CR1 (che contribuisce all’infiammazione cronica nel cervello) e TREM2, anch’esso collegato alla risposta dell’encefalo all’infiammazione. Vi sarebbe quindi un rapporto tra geni e meccanismi patogenetici diversi da quelli collegati alla beta-amiloide (sostanza neurotossica che si deposita sulle membrane cerebrali formando placche in grado di inibire i collegamenti tra i neuroni che finiscono per morire, ndr) fino ad ora riconosciuta come la sostanza con un ruolo determinante nella patogenesi della malattia. In generale, per i vari geni sono in corso studi per determinarne il ruolo, che molto probabilmente è quello di cofattori: infatti agiscono su siti d’azione diversi, che giocano un ruolo sinergico sulla comparsa della malattia.
Gli stili di vita attivi aiutano a rimandare la comparsa della malattia
È quindi chiaro che la presenza di questi o altri geni non può essere interpretata come una condizione di rischio assoluto: la comparsa della malattia è modulata dalla cosiddetta capacità di “resilienza” del nostro cervello, cioè dalle difese che possono essere messe in atto di fronte ad un rischio di origine genetica. E questa capacità dipende in buona parte dai comportamenti dell’individuo. A questo proposito si ricorda l’importanza dell’educazione, della professione svolta, dall’attivazione cognitiva precedente (letture, attività culturali in genere, giochi di intelligenza e memoria), dell’attivazione motoria. Si può quindi affermare che il passaggio dalla condizione di invecchiamento “normale” a quella di alterazione cognitiva è regolato da un insieme di fattori, alcuni non controllabili dall’individuo (la struttura genetica), altri controllabili, che attivano le potenziali capacità dell’encefalo di rallentare le modificazioni biologiche indotte dai fattori genetici. Il processo di modificazione della struttura neuronale che arriva fino alla neurodegenerazione è lento e si sviluppa in lunghi anni; nello stesso tempo, stili di vita attivi potrebbero svolgere una continua opera di controllo e rallentamento, allontanando la comparsa dei sintomi.
Scelte positive, effetti protettivi
È quindi possibile rispondere a chi ci scrive che non vi sono dati definitivi, ma che l’impegno degli studiosi è molto ampio. Però sapere che la malattia non è rigidamente collegata ad un gene, ma che i meccanismi della sua comparsa coinvolgono anche condizioni che dipendono dalle scelte degli individui, è motivo di serenità. Non si è mai troppo vecchi, né la cognitività troppo compromessa per non dare importanza a scelte positive, che sviluppano effetti protettivi. Questo è confermato anche da studi recenti, secondo i quali l’incidenza della demenza è in diminuzione, anche se di poco. Il cambiamento dello stile di vita, avvenuto in questi anni, ha avuto infatti una ricaduta significativa sul rischio. Il cerchio si chiude: il nostro encefalo è regolato da molti fattori responsabili delle funzioni cognitive; presto sapremo più esattamente come si bilanciano tra di loro e potremo essere più determinati nel compiere scelte salutari.