Tumore all’ovaio, un algoritmo rende più facile la diagnosi e quindi la cura.
Subdolo e letale, in 8 donne su 10 viene scoperto in fase già metastatica. Ricercatori europei hanno messo a punto un nuovo metodo che perfeziona gli esiti dell’ecografia.
Finalmente un passo avanti nella diagnosi precoce del tumore all’ovaio, una patologia che purtroppo ancora oggi si diagnostica nell’80 per cento di casi quando è ormai in fase avanzata e le probabilità di guarigione diventano molto basse. Non a caso i termini più ricorrenti per definirlo sono «subdolo», perché cresce spesso in fretta e senza dare sintomi specifici, e «letale», visto che a fronte di una scoperta tardiva della malattia la sopravvivenza a 5 anni delle pazienti è solo del 35 per cento. Da anni i ricercatori cercano strumenti di prevenzione (come il pap test per il tumore all’utero) o di diagnosi precoce (come la mammografia per quello al seno) e «ora per la prima volta s’intravede una luce in fondo al tunnel: servono conferme, ma è stato messo a punto un test che potrebbe essere di grande aiuto», dice Giovanni Scambia, direttore del Dipartimento per la Tutela della Salute della Donna e del Bambino al Policlinico Gemelli di Roma, commentando gli esiti di uno studio appena pubblicato sull’American Journal of Obstetrics and Gynecology.
Lo studio
Un gruppo di ricercatori europei dell’Imperial College di Londra e dell’Università di Leuven in Belgio è infatti riuscito a mettere a punto un metodo che aiuta a quantificare il rischio di carcinoma ovarico. Le cisti ovariche sono lesioni molto frequenti e benigne, che possono essere curate con un semplice intervento mininvasivo (e spesso non richiedono alcuna operazione). Mentre i carcinomi maligni necessitano una chirurgia radicale, non di rado assai complicata, a cui le pazienti dovrebbero sottoporsi il più rapidamente possibile per asportare la massa tumorale e aumentare così le probabilità di sopravvivenza. Piuttosto frequentemente, distinguere le lesioni benigne da quelle maligne non è semplice e il pericolo è quello di perdere tempo prezioso contro un eventuale tumore aggressivo. Dopo aver analizzato i dati di quasi 5mila donne, raccolti in 22 centri ospedalieri nel corso di 13 anni (dal 1999 al 2012), il nuovo metodo ha identificato correttamente tra l’89 e il 99 per cento dei casi di carcinoma ovarico.
Regole semplici per avere una diagnosi precisa
«Prima di procedere con la terapia, è fondamentale una veloce e corretta classificazione della massa ovarica – spiega Dirk Timmerman, docente di Ginecologia all’Università di Leuven e autore principale dello studio -. L’ecografia è lo strumento diagnostico principale, ampiamente utilizzato, sia per rilevare le cisti sia per classificarle come benigne o maligne. La sola ecografia, però, non era risolutiva per circa il 20-25 per cento delle pazienti e ora siamo riusciti ad affinarla, in modo tale che si arrivi rapidamente in tutte le donne ad una diagnosi precisa, che sappia dire se la lesione di cui soffre è benigna o maligna». In pratica, il gruppo International Ovarian Tumor Analysis (IOTA), guidato da Timmerman, ha progettato e convalidato un facile algoritmo in grado di standardizzare e semplificare l’interpretazione dei risultati ecografici. Sono quelle che gli addetti ai lavori chiamano “Simple Rules” (ovvero regole semplici), create con un linguaggio e dei criteri utilizzabili sia in centri oncologici specializzati che in strutture più piccole, dove spesso le persone si recano per fare i primi test diagnostici.
Fattori di rischio e campanelli d’allarme
In attesa di nuovi sviluppi, è importante che le donne imparino a riconoscere i primi possibili campanelli d’allarme: «Dolori e gonfiore addominale, stitichezza o difficoltà digestive non vanno trascurati - dice Giovanni Scambia -: sebbene molto vaghi, devono destare preoccupazione se perdurano per settimane e, soprattutto, se non sono mai stati presenti. Particolare attenzione è poi richiesta alle donne con una familiarità, più a rischio di ammalarsi. In questi casi basta rivolgersi subito al ginecologo che deciderà gli accertamenti da fare, tra i quali i nuovi test genetici, che vanno alla ricerca di mutazioni del Dna (quelle dei geni Brca) che predispongono all’insorgenza di questa forma di cancro e che stanno aprendo scenari fino a pochi anni fa impensabili per la prevenzione, la diagnosi e la cura di questo tumore». Ciò che è poi noto è che un certo numero di fattori aumentano il rischio di sviluppare questa forma di tumore. Innanzitutto bisogna tener presente che la maggior parte dei casi viene identificata dopo l’ingresso in menopausa, tra i 50 e i 69 anni (ma alcuni tipi di tumore dell’ovaio possono presentarsi in donne più giovani). Inoltre circa il 15 per cento dei tumori all’ovaio ha come principale fattore di rischio la familiarità: donne con madre, sorelle, figlie con tumore dell’ovaio, della mammella o dell’utero hanno maggiori probabilità di sviluppare la neoplasia. Inoltre le alterazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 di origine ereditaria possono portare a una predisposizione più o meno importante. Va anche considerata la storia riproduttiva della donna: ovulazioni ripetute sembrano essere associate ad un rischio maggiore di contrarre la malattia mentre la gravidanza sembra giocare un ruolo importante come fattore protettivo del tumore dell’ovaio proprio per la riduzione del numero di ovulazioni. «Lo stesso vale per un prolungato allattamento che, da studi effettuati, sembra incidere positivamente nel proteggere dalla malattia – conclude Scambia -. Alcuni studi hanno anche mostrato un’incidenza maggiore di tumore all’ovaio in donne soggette a menarca precoce ( prima mestruazione) o menopausa tardiva. Al contrario l’assunzione prolungata della pillola anticoncezionale è associata a un rischio minore di contrarre la malattia. Infine, gli stili di vita: obesità, il fumo, assenza di esercizio fisico sono ulteriori fattori che aumentano il rischio di sviluppare questa neoplasia».