Le conseguenze psicologiche della trombosi giovanile
Alla tennista Serena Williams è bastata una distorsione a una gamba per avere un’embolia polmonare a 29 anni. Era il 2011. Una trombosi. Però la parola evoca persone anziane, se non vecchie. Ma da giovani? Questa idea sembra una delle ragioni per cui - secondo un recente studio danese - il 22 per cento dei ragazzi che vengono colpiti da tromboembolismo venoso nel giro di cinque anni si ritrova a cercare aiuto negli psicofarmaci. Uno su cinque si fa prescrivere antidepressivi, ansiolitici oantipsicotici: il doppio rispetto ai coetanei che non hanno vissuto questa esperienza. Evidentemente traumatizzante. Anche perché la malattia non finisce col primo episodio.
La “pillola” può far venire la trombosi?
SI VIVE CON LA PAURA DI UN NUOVO ATTACCO - Il dato è emerso da un meeting della Società Europea di Cardiologia. I ricercatori dell’ospedale universitario di Aalborg hanno seguito 4.132 pazienti di età compresa fra i 13 e i 33 anni, confrontandoli con un gruppo omogeneo di controllo di quasi ventimila ragazzi senza precedenti di tromboembolismo venoso (detto anche trombosi venosa profonda). «I giovani colpiti da Tev vivono nel terrore di avere un altro attacco, che sanno potrebbe essere mortale. E questo anche molti anni dopo il primo e semmai unico episodio», hanno detto gli studiosi. «Il fatto è che il tromboembolismo venoso è una malattia cronica con un alto rischio di nuovi episodi dopo il primo (+ 30% nei successivi dieci anni, ndr) e con possibili conseguenze fisiche come gonfiore o crampi agli arti, dolore persistente o senso di bruciore, ipertensione polmonare, più la necessità di curarsi per sempre». A tutto questo, già pesante di per sé, si aggiunge nei giovani colpiti da Tev il senso di una profonda ingiustizia, di spaesamento: ma perché io, che sono giovane, quando questa è una malattia da vecchi? Finisce che si sentono diversi e si isolano dai compagni.
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UNA CONDIZIONE POCO CONOSCIUTA - Il disagio mentale subentra stimolato da questi vissuti. E senz’altro colpisce più pazienti di quelli che risultano all’indagine - osservano i danesi - in quanto a molti ragazzini si può immaginare che non vengano prescritti psicofarmaci in ragione dell’età acerba. Lidia Rota è responsabile del centro trombosi dell'istituto clinico Humanitas di Rozzano (Milano), oltre che fondatrice e presidente dell’Associazione per la lotta alla trombosi. A lei chiediamo di spiegare il volto e i risvolti di questa malattia misconosciuta se si pensa che è la causa di un quarto delle morti nel mondo e che, a fronte di una tale incidenza, solo un italiano su 3 conosce il significato della parola trombosi. Così come ignora che questo grave evento si può prevenire. «Un trombo è un coagulo del sangue in sé positivo», esordisce la specialista. «Serve a guarire le ferite, a fermare l’emorragia. Ma se non si scioglie e si ferma troppo a lungo all’interno dei vasi sanguigni, diventa pericoloso. Restringe il lume del vaso così da rallentare o bloccare la circolazione del sangue e l’arrivo dell’ossigeno alle cellule. Può poi accadere che un frammento si stacchi e venga risucchiato verso il cuore che lo manda nei polmoni. Ecco l’embolia polmonare».
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INDICAZIONI PER DONNE INCINTE E VIAGGIATORI - Una malattia insidiosa che si può instaurare, nei giovani, per una tendinite o una distorsione (come accaduto alla Williams). «Bisogna pensarci e controllare con un ecodoppler che è un esame né invasivo né costoso», dice la dottoressa Rota. «Si tratta quasi sempre delle gambe, ma negli sportivi può accadere nelle braccia». È un’eventualità da tener presente con le donne incinte, perché il loro sangue è più denso e coagula molto molto più rapidamente. Altro caso: chi affronta lunghe traversate in aereo. Ecco la “sindrome da classe economica”, detta così perché l’immobilità e le gambe costrette in piccoli spazi su lunghi voli economici possono facilitare un episodio, specie se si è sovrappeso e si è fumatori. Contano i precedenti: se in famiglia c’è stato un evento vascolare prima dei sessant’anni, potrebbe esserci una predisposizione. «In questo caso e ancor più se si ha avuto un attacco precedente, in previsione di un volo aereo superiore alle quattro ore si prende un farmaco antitrombotico prima di partire», suggerisce Rota.
Noi italiani non sappiamo fare prevenzione
DALLA PREVENZIONE ALLA CURA - La mancanza di movimento è un fattore di rischio: così oltre la metà dei casi di trombosi avviene subito dopo o durante il ricovero in ospedale causa la lunga immobilità a letto. E non sempre i medici valutano questa eventualità legata alle degenze. Ma curare si può? O anche prevenire? La risposta della Rota è affermativa. «Tuttavia la cura è lunga e impegnativa. Ecco perché, specie se parliamo di giovani, pesa su di loro così tanto. Facendoli sentire diversi. Se poi guardano su internet, si sentono ancora più malati. La terapia prevede un farmaco anticoagulante da 3 a 24 mesi che deve sciogliere il trombo così che i vasi sanguigni non restino incrostati. Come dicevo, è impegnativa: un’iniezione al giorno sottocutanea (eparina) o pastiglie diCumadin con frequenti controlli del sangue o, ancora, i recenti anticoagulanti che richiedono sorveglianza. Il giovane colpito da trombosi entra in un mondo cui non pensava, si sente sbalzato fuori dal proprio mondo». Quel che manca, denunciano Lidia Rota e l’associazione Alt, è un’informazione adeguata. La prevenzione, infatti, consiste innanzitutto nella consapevolezza di questa patologia e dei fattori di rischio, da eliminare con uno stile di vita sano: sana alimentazione, niente fumo, movimento. «Purtroppo», conclude la specialista dell’Humanitas, «circola poca informazione autorevole: non ci sono siti adeguati accessibili al pubblico e c’è scarsa informazione anche da e tra i medici».